Midsommar – Recensione in Anteprima

Midsommar - Il villaggio dei dannati

12 Lug 2019

La raffigurazione di uno strano rituale si apre a metà, dando vita allo scenario di una foresta innevata. Le punte degli alberi freddi si muovono lentamente al ritmo stanco di un vento gelido. L’aridità del ghiaccio affonda negli occhi dello spettatore con una crudeltà inimmaginabile. In sottofondo il canto runico intonato da una voce decisa, femminile, ci accompagna in quella che è la premessa, la prima immagine che il regista mostra al suo pubblico. Poi lo stacco brutale, un telefono che squilla ci taglia via da quel panorama tristemente idilliaco e ci porta in una cittadina. Ad ogni squillo del telefono, l’immagine si avvicina sempre di più, finché non ci porta all’interno di una casa dove delle persone stanno dormendo. E’ l’inizio di Midsommar. E’ l’inizio del terrore e dell’angoscia, ma è anche l’inizio dell’accettazione di sé stessi e del proprio dolore. E Ari Aster confeziona questa premessa con dovizia, sottolineando con stile il suo progressivo abbandonare le dinamiche oscure e chiuse che si erano già viste in Hereditary. E’ importante specificare infatti come il freddo, il buio e la notte, siano fattori presenti in un primo atto del tutto propiziatorio in termini di trama, che servono a Dani (Florence Pugh) per abbandonare il suo vecchio mondo e conoscerne uno del tutto nuovo. Ma chi è Dani Ardour?

Dani è una ragazza fuori sede che studia psicologia all’università. Questa scelta è dettata forse dal fatto che la sorella, personaggio tanto marginale quanto importante, soffre di disturbo bipolare, vivendo infatti a casa con i genitori senza riuscere a badare a se stessa. Dani si trova in una strana relazione. Christian (Jack Reynor), il suo ragazzo, è sul punto di lasciarla, e questo Dani lo percepisce. Sono una coppia allo sbando, eppure nessuno sembra voler prendere una scelta sul da farsi. Da un lato, Christian manca di spina dorsale nel tagliare i ponti, pur rimanendo arido in un amare che è palesemente esaurito. Dall’altro lato Dani, dipendente dall’affetto del ragazzo ed emotivamente poco stabile per lo stress derivante dalla sorella. La situazione peggiora quando la vita di Dani viene sconvolta dalla notizia di una grande perdita. Da lì, lo strazio prende il sopravvento, portando questo rapporto di dipendenza sentimentale a rafforzarsi nel dolore. Christian non sa gestire la situazione, e soprattutto ora che Dani soffre tanto, non ha il coraggio di chiudere la relazione. E’ per questo che il ragazzo, nonostante non lo voglia davvero, include la fidanzata in una vacanza in Svezia che da tanto tempo stava organizzando per conto suo con degli amici. Nonostante le rimostranze dei ragazzi, il gruppo parte alla volta di Horga: comunità della Svezia rurale, isolata dal resto del paese e rappresentante di antiche tradizioni pagane. Il ghiaccio, il freddo e il buio dell’inizio del film perdono forma, e Aster introduce lo spettatore ad una nuova tipologia di incubo: quello sotto la luce di un sole accecante.

Come per Hereditary, ci si trova di fronte a un film che non si appella al genere per raccontare semplicemente una storia, ma dirama le proprie radici in sottotesti più profondi e improntati al raggiungimento di problematiche reali. Di fatti, se in Hereditary i veri protagonisti erano il dramma familiare, l’incomunicabilità fra madre e figlio e il modo che un nucleo affettivo ha di reagire a un trauma, in Midsommar è impossibile per uno sguardo attento non notare come in realtà sia tutto riconducibile all’analisi di una coppia distrutta da un legame forzato, simbiotico per il dolore derivante dalla dipendenza affettiva. E il fatto che la fotografia, magistralmente elaborata da Pawel Pogorzelski e Ari Aster, tenda a opacizzare ogni scena sotto l’occhio cocente di un sole brillante, mette in luce un aspetto diverso e del tutto concreto: il disfacimento sentimentale di Dani e Christian è reale, e tutti lo vedono. Gli amici, gli abitanti di Horga, lo spettatore! Tutti sanno e osservano il fatto più importante e chiaro del film, e cioè che la coppia ormai ha terminato il suo ciclo. Ma la domanda più importante rimane una: la soluzione quale sarebbe? La risposta che dà Aster agli spettatori è più complessa di quanto si creda. Normalmente, ad una coppia che ormai non ha più senso di esser tale, si auspicherebbe una semplice separazione. Qui il regista prende una posizione invece, una parte nella questione, e per forza di cose si dirige sul punto di vista della protagonista, che è anche l’essenza del film. Dani per essere libera non deve solo separarsi da Christian, ma imparare a riconoscerlo. Christian è l’icona metaforica, fredda e insicura, del male che c’è dentro Dani, e che deve fronteggiare. Christian è l’orso da sconfiggere alla fine di un rituale iniziatico. E l’unico modo per abbattere l’orso, il demone, è accettarlo. Abbracciare le proprie oscurità così da demandare a se stessa la libertà superiore. La perdita, il non essere amata ma costretta per mancanza di coraggio a dipendere da Christian, la paura di cedere a se stessa, e di conseguenza di accettarsi… tutte queste sono le tappe dell’itinerario narrativo che Ari Aster mette in piedi con Midsommar e che Dani con non poche difficoltà affronta e supera. E’ una discesa nella luce. E utilizzo il termine discesa perché è proprio quello che succede dentro e fuori Dani, con la differenza che il male serbato all’interno della ragazza si traduce in una malvagità liberatoria, opportuna. Delirante, terribile, ma giusta. L’accettazione e l’incarnazione del male come distanze dalla condanna di un amore estinto e venefico.

In tutto ciò, la comunità di Horga riveste un ruolo per nulla indifferente. Le usanze e i costumi che Aster è riuscito ad orchestrare sono di una magnificenza incredibile, prima di ogni cosa per la pura bellezza estetica. Vi è infatti un bianco luccicante che permea negli abiti di tutta la comunità. Lo stesso bianco che cade in netta contrapposizione di motivi e decorazioni floreali dai colori più spiccati, sviluppando negli occhi dello spettatore un contrasto sì preciso e gradevole, ma anche maledettamente allucinante. Si ha costantemente la sensazione di trovarsi in un posto che è a metà fra l’Eden e le porte dell’Inferno. Horga è una comunità che seduce, che inquieta, che attrae e che, talvolta, è naturalmente crudele. E su questo si denota la bravura del regista che è riuscito nel creare il background di una società mai del tutto chiaro eppure convincente, paradisiaco in alcuni momenti e demoniaco in altri, dotato di un equilibrio tutto suo, quasi come se fosse una comunità reale, che tutti conosciamo ma che non abbiamo mai approfondito davvero.
Un plauso va ad Henrik Svensson, grande scenografo, che nella pellicola sviluppa l’idea di edifici rustici sparpagliati nei campi di Horga, alternati a costruzioni divine in legno che richiamano sì il sole e i fiori e la beatitudine, ma che altresì ci riportano al sacrificio, alle fiamme di altari dove le persone vanno a morire coscienziosamente. Menzione onorevole va all’Affekt: linguaggio runico inventato da Ari Aster che è un misto fra lo svedese tradizionale e quello arcaico. Nell’Affekt vi risiede una mirabolante intuizione, che si presta all’utilità narrativa sorretta dalla comunità di cui si sta parlando. Ad Horga vige lo svedese tradizionale, ma è anche una comunità che danza, che si muove al ritmo di musica. Ed è proprio nella danza che l’Affekt prende vita, anche e soprattutto per chi non lo conosce o non lo ha mai parlato, e non mi sbilancio oltre perché rischierei di andare nello spoiler, ma diviene impossibile non menzionare l’operato di cura estrema che si cela dietro le regole di questo linguaggio. Si può infine affermare che l’Affekt sia a tutti gli effetti il modo che ad Horga hanno di mettersi in comunione con la natura e con le divinità, ma anche e soprattutto con se stessi. L’occhio interiore che servirà a Dani per affrontare ciò che per troppo tempo è rimasto sopito dentro di lei.

Infine è bene descrivere l’evoluzione che l’occhio di Ari Aster raggiunge con questa sua nuova fatica. In Midsommar c’è una distanza non solo nelle ambientazioni, ma anche nel modo di osservare gli eventi. Si abbandonano i soffocanti primi piani, le strette claustrofobiche, e ci si orienta su uno sguardo più ampio che verte nella totalità degli eventi. Una totalità che in alcuni momenti susciterà nello spettatore una sensazione di angoscia ancora più potente di quella già provata con Hereditary. Pregevole è anche il modo con cui Ari Aster dedica un occhio di riguardo alle donne. Dani è una, ed è chiaramente il personaggio più importante: al di là della sua natura da protagonista, è anche quel personaggio che è presente in quasi tutte le scene del film, in una maniera quasi schiacciante. Ma Dani è anche la rappresentazione di una totalità. Il suo pianto è il pianto di tutte le donne. La sua forza è la forza di tutte le altre. E non perché lei abbia bisogno di altre figure femminili per procedere nella sua discesa nella luce, no… è piuttosto pura condivisione. La stessa condivisione che Aster chiaramente preclude in Midsommar agli uomini. Si pensi agli amici di Christian, i ragazzi che partono con lui in vacanza. In realtà non sono neanche legati l’uno con l’altro, e non mancheranno momenti di conflitto fra questi durante la visione. Perfino Horga è una comunità profondamente matriarcale, dove la saggezza e l’accuratezza di qualsiasi scelta è colorata da un appeal deliziosamente femminile e in un qualche modo distante, superiore, ascetico. Ari Aster mette in scena un film nettamente diverso dal suo predecessore, pur mantenendo nello script dinamiche sottotestuali a lui tanto care; è possibile che comunque qualcuno si ritrovi a criticarne il ritmo. Essendo diverso da Hereditary, Midsommar si mostra come un film che non esita a prendersi il giusto tempo, dando l’impressione di esagerare forse e finendo col distrarre al minimo la visione in alcuni punti. Nulla di troppo fastidioso ad ogni modo. L’evoluzione di Aster è palese, ed è accettata da uno sguardo non superficiale, in grado di acconsentire tranquillamente al dilatarsi di alcune tempistiche narrative che vanno a favore di un’introspezione silenziosa, che si riversa sul meraviglioso environment di Horga e sulle facoltà attoriali davvero eccelse di Florence Pugh.

CONCLUSIONI: Midsommar si presenta come un fantastico trattato sull’accettazione di se stessi e del male interiore come istinto di elevazione. La liberazione di Dani, che nella sua accettazione trova la pace caotica in un mondo pieno di malvagità, diviene lo specchio di un’analisi di coppia sottotestuale ma assai potente, avvalorata dai magnifici scorci della comunità di Horga e dalla regia di Aster che, appellandosi al genere Horror, contribuisce nel creare un film tanto atipico quanto meraviglioso.

VOTO FINALE: 9,5

SCHEDA FILM

  • USCITA: 25/07/2019
  • GENERE: Horror
  • REGIA: Ari Aster
  • DURATA: 147 min
  • SCENEGGIATURA: Ari Aster
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